«Non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini»
Scriveva Alda Merini ne L’altra verità. Diario di una diversa, testo autobiografico nel quale la poetessa racconta i dieci anni vissuti all’interno di un manicomio. Oggi, come allora, la follia conserva un alone di mistero, che altro non è se non la profonda incapacità di comprendere un dolore, spesso, inespresso. Una sofferenza che fatica ad assumere il suono nitido della parola.
Gli eventi degli ultimi giorni hanno acceso i riflettori sul tema della salute mentale e sullo stigma che si porta dietro, confermando che le strutture narrative utilizzate per parlare di malattia mentale nella nostra società hanno alla base particolari ideologie che richiamano l’idea di emarginazione: pericolosità, debolezza, rimozione. Questi sono i frames attraverso i quali, collettivamente, interpretiamo la sofferenza di natura psichica.
Simone Biles: il ritiro da Tokyo per occuparsi della sua salute mentale
Simone Biles, ginnasta statunitense campionessa olimpica ai giochi di Rio del 2016, durante le ultime Olimpiadi di Tokyo, ha annunciato il ritiro dalla competizione per occuparsi del proprio benessere mentale. L’atleta ha spiegato durante una conferenza stampa di aver perso l’orientamento nello spazio durante l’esecuzione di un esercizio, motivo per il quale ha scelto di fermarsi per non mettere a rischio la propria incolumità. Al netto dei commenti di chi ha ritenuto poco importante la decisione di prendersi cura della propria sofferenza, è interessante riflettere sul modo in cui i media hanno trattato la notizia.
Nello specifico a destare scalpore, ma anche una certa preoccupazione, è stato un articolo de laRepubblica dal titolo eloquente: «la forza e la fragilità». In copertina i volti di due sportive, Simone Biles e Federica Pellegrini, la quale aveva annunciato il ritiro dalla scena sportiva dopo l’ultima apparizione a Tokyo. Due donne vengono qui messe a confronto quasi a voler stabilire una gerarchia del dolore al fine di individuare la forma di sofferenza più degna. L’Italia ha dato i natali alla legge 180 diventando il primo paese a chiudere i manicomi, ma nonostante questo vaghiamo ancora alla ricerca di parole che permettano a uno dei grandi tabù del nostro tempo di porsi al centro del discorso pubblico senza sensazionalismo né pietismo. Oggi, nel 2021, ritirarsi da una gara per occuparsi della propria salute mentale è sinonimo di debolezza: se a frantumarsi è qualcosa che non risulta immediatamente visibile non sembriamo essere in grado di legittimare quella frattura per poi provare a ricomporla.
Fotografia di Francesco Formica
La stessa sorte era toccata a Naomi Osaka, per due volte vincitrice degli Australian Open e degli Us Open, che lo scorso maggio ha confermato il ritiro dal Roland Garros dopo aver inizialmente annunciato che avrebbe partecipato rifiutando le conferenze stampa. Queste le parole di Osaka in una nota pubblicata in rete: «la verità è che ho sofferto di lunghi episodi depressivi dallo US Open 2018 e non è stato facile conviverci».
Normale di Pisa: la produttività al prezzo del malessere
Il 23 luglio, poi, Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi hanno pronunciato un discorso di denuncia rivolto al sistema accademico, proprio il giorno della cerimonia di consegna dei diplomi alla Normale di Pisa, criticando tra le altre cose «la spinta alla competitività, alla produttività, al publish or perish», dinamiche che i docenti e le docenti non sembrano aver contrastato ma al contrario riprodotto. Questi alcuni stralci del discorso: «C’è un modo di dire molto popolare in queste aule e cioè che alla Normale si viene buttati subito in acqua ed è così che pur di non affogare si impara a nuotare in fretta. E tuttavia oggi a diplomarsi con noi non ci sono tutte le persone con cui abbiamo condiviso il nostro percorso: la loro assenza ci pesa ed è una sconfitta per la scuola. Anche tra i presenti una buona parte ha imparato a nuotare solo a prezzo di anni di malessere. Vorremmo dirlo qui con chiarezza: non è “grazie a”, ma nonostante questo principio che siamo arrivate qua».
E ancora: «solamente nel 2019, in seguito a un questionario redatto da una parte di noi, la direzione ha disposto una riforma del supporto psicologico che introduce un’équipe fissa per garantire continuità a chi sceglie di avvalersene. Riconosciamo che i miglioramenti siano stati significativi, ma ci teniamo a sottolineare che non basta agire a valle di un problema sistemico. Il nostro malessere è intrinsecamente legato a un modello: quello dell’accademia neoliberale, che la Normale non fa niente per contrastare ma tutto per corroborare».
Nello sport, così come nell’ambiente accademico, emerge la difficoltà a rapportarsi con la sofferenza psicologica. E uno dei rischi che risulta irrimediabilmente visibile agli occhi di chi intende guardare davvero è questo: “la società della performance” tende a conferire valore alle persone soltanto quando raggiungono degli obiettivi, demonizzando la vulnerabilità. La salute mentale è un tabù e, anche quando non lo è, occuparsene sembra essere un lusso per borghesi annoiati, un affare di poco conto.
Salute mentale e Covid-19
I dati ci dimostrano che occuparsi di sofferenza mentale, oggi, è una necessità. Da un anno e mezzo il mondo intero si ritrova a fronteggiare una pandemia globale i cui strascichi dal punto di vista psicologico non possono essere ignorati.
Fotografia di Francesco Formica
L’Istituto Superiore di Sanità ha reso noti i risultati di un’indagine avviata a giugno dal Registro Nazionale Gemelli (RNG) all’interno del Centro con l’obiettivo di registrare l’impatto che l’epidemia di Covid-19 ha avuto sull’equilibrio non soltanto fisico ma anche psichico di una popolazione di gemelli. Stress e depressione sono stati registrati nell’11 e nel 14% del campione, che comprendeva rispettivamente gemelli adulti (età media 45 anni) e minorenni (età media 9 anni). Per quanto riguarda i gemelli tra gli 11 e i 17 anni, il 16% ha dormito peggio durante il periodo di lockdown, il 13% ha dichiarato di essersi sentito “abbastanza spesso triste” e l’11% di essersi sentito “abbastanza spesso solo”.
Un altro studio coordinato dal Dipartimento di Salute Mentale dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” su un campione di 20.720 partecipanti ha evidenziato che «durante il lockdown sono aumentati i livelli di ansia, depressione e sintomi legati allo stress, soprattutto nei soggetti di sesso femminile. Inoltre, la durata dell’esposizione al lockdown ha rappresentato un fattore predittivo significativo del rischio di presentare peggiori sintomi ansioso-depressivi».
Non è dato ancora sapere quali equilibri costruiremo per dare un nuovo ordine al mondo, ma possiamo iniziare a riflettere sulla società che abbiamo costruito. Ci muoviamo come monadi incomprese verso un’idea di performatività che pretende di legare a doppio filo il valore intrinseco di ogni persona a ciò che produce. Ma essere e fare sono due dimensioni ben distinte. Siamo esseri umani degni di rispetto, accidentalmente in grado di costruire e raggiungere obiettivi mutevoli.