Il confronto con Marina Zainni, psicoterapeuta del Ser.D di Frosinone, U.O.C. Patologie da Dipendenza della Asl di Frosinone, ci ha restituito il valore fondante delle emozioni che diventano materia viva nella relazione tra il curante e il paziente dipendente da sostanze. «Amore è il fatto che tu sei il coltello con quale frugo dentro me stesso», diceva Kafka a Milena. Nelle mani di chi offre una possibilità di cura, in quella lotta instancabile tra onnipotenza e misura umana, le parole diventano armi utili a scomporre le esistenze per poi ritrovare l’intero.
«Lo sforzo è quello di portare il paziente a non essere nemico di sé stesso quindi l’autodeterminazione arriva, dal mio punto di vista, nel momento in cui il paziente accetta il proprio bagaglio. Nel momento in cui non si porta dietro la propria storia rinchiusa dentro una valigia trascinandosela a forza, ma la accetta e trova nel proprio vissuto – nel proprio dolore – il senso di sé, scoprendo di essere anche quello».
In questi giorni di interviste con gli operatori che si occupano di tossicodipendenza è emerso un tema che trovo interessante approfondire: la prospettiva del curante. Mi piacerebbe conoscere anche il suo punto di vista rispetto a un interrogativo: cosa si prova quando i tentativi di cura messi in atto non producono gli effetti sperati?
La lettura dei sentimenti, delle emozioni e del vissuto del curante dipende dal professionista. Uno psicoterapeuta avrà un’attenzione ai propri vissuti sicuramente diversa rispetto a quella di un medico, di un’assistente sociale o di un infermiere. Tutte le professioni di aiuto devono averla, ma la nostra formazione di psicoterapeuti ci impone di leggere le nostre emozioni perché esse entrano prepotentemente nella relazione con il paziente. E soprattutto nella relazione terapeutica il nostro rimando emotivo inconsapevole – il controtransfert – ha un riflesso significativo per il paziente.
C’è da dire che, per la propria specificità professionale, un terapeuta imposta un lavoro profondo con il paziente dipendente da sostanze sull’uso della sostanza, sul suo significato, sui simbolismi ad essa associati; inoltre focalizza il proprio intervento sul tipo di disturbo presente, sul funzionamento della personalità, sulle risorse che la persona presenta e sui punti di fragilità. Insomma, sulla sua storia personale. Non dico che il concetto della dipendenza sia marginale, è presente ma va di pari passo con la storia della persona. Questo fa sì che anche eventuali ricadute vengono analizzate in maniera diversa e anche la frustrazione che il terapeuta vive nel “fallimento” della cura, contribuisce a verificare che cosa ha significato quella recidiva all’interno della relazione. Il vissuto del terapeuta diventa un elemento che consente di comprendere ancor di più il paziente.
Esiste la frustrazione del terapeuta, ma ricordiamo anche la frustrazione dell’infermiere o del medico che vedono il paziente tornare per chiedere un aumento di terapia. Sono sentimenti che entrano nella relazione di tutti i curanti e sicuramente incidono in misura maggiore o minore in ragione delle proprie funzioni. Nel Ser.D di Frosinone abbiamo ancora un gruppo di pazienti cronici; in alcuni casi è presente il rischio di sentire che la propria azione terapeutica è quasi inutile, ma in quanto operatori nei servizi per le dipendenze sappiamo che esistono tante possibilità di intervenire su tematiche così complesse e non sempre è possibile una guarigione per il paziente così come è comunemente intesa.
Quello che dobbiamo tener presente a noi stessi è la possibilità che riduzione del danno sia la migliore strategia possibile. Cerchiamo di trattenere questi pazienti complessi in trattamento con tutte le difficoltà e i momenti di crisi, per poi tornare a un equilibrio accettabile che previene la possibilità del drop-out con il rischio, ancora oggi, di possibili perdite di vita. Le morti per droga esistono ancora. Non sono più le morti da overdose o da eroina, sono morti per patologie associate: cardiopatie nei casi di dipendenza da cocaina o cirrosi epatiche, ad esempio. La ritenzione in trattamento è una politica di riduzione del danno che ci aiuta ad evitare che la persona si perda.
Ha citato la guarigione. Che cosa vuol dire guarire?
Anche il professionista che lavora nelle dipendenze patologiche ha l’esperienza di pazienti per i quali si è concluso il trattamento; si tratta di persone che hanno delle risorse significative sia sul piano personale che sul piano della rete familiare e sociale. Queste persone, molto spesso, hanno incontrato la sostanza o il comportamento – perché oltre alle dipendenze da sostanza tradizionali trattiamo anche dipendenze comportamentali: dipendenze tecnologiche, gioco d’azzardo o, in alcuni casi, sexual addiction – in momenti particolari della loro vita e hanno poi avuto la forza di chiedere aiuto o sono stati spinti a farlo. In seguito a un trattamento meditato, a una motivazione che è stata sostenuta non soltanto dall’esterno ma anche dall’interno, c’è stata un’evoluzione del paziente che ha trovato un funzionamento della personalità più orientato ad ad esprimere le proprie potenzialità. Ha trovato un modo di vivere maggiormente equilibrato e gratificante, riuscendo ad adottare una modalità di funzionamento più capace di definire e realizzare i propri obiettivi di vita. Non sappiamo se questo significhi una guarigione definitiva. Ma per ciascuno di noi è difficile pensare a qualcosa di definitivo.
La psicoterapia è un percorso di consapevolezza e quindi un processo di crisi delle certezze. Nel caso delle dipendenze è sempre possibile e auspicabile mettersi in discussione oppure a volte è necessario agire diversamente?
Dipende dalla persona che abbiamo di fronte, dalle sue risorse, anche dalle sue forze. Nella terapia ci sono dei momenti in cui la persona è pronta ad accettare la messa in discussione e altri momenti in cui non ce la fa: sta al terapeuta capire quando si può spingere verso una maggiore consapevolezza. Una maggiore consapevolezza porta a toccare parti di sé molto profonde che possono non essere gestibili in quel momento. Il terapeuta, insieme al paziente, deve cogliere l’istante più opportuno per spingere verso una maggiore consapevolezza oppure trovare, in quel momento, il miglior funzionamento possibile.
Quando non è possibile raggiungere la consapevolezza di cui parlavamo quali altre soluzioni si prospettano?
Si cercano delle modalità di vita che, magari, richiedono un sostegno maggiore dall’esterno, che possono essere associate a qualcosa di gratificante e funzionale per il paziente pur non essendo accompagnati da una profonda comprensione. Queste soluzioni sono su un piano diverso rispetto alla consapevolezza ma risultano utili al raggiungimento di un obiettivo o di uno scopo che per il paziente è significativo. In questo caso parliamo di psico-educazione che è comunque una forma di terapia, oppure una psicoterapia di sostegno focalizzata al raggiungimento di obiettivi specifici precedentemente individuati con il paziente stesso e che rappresentano in ogni caso una strategia funzionale al raggiungimento del proprio benessere.
Un altro tema emerso nelle interviste è quello dell’autodeterminazione. In che termini e in che misura possiamo parlarne in relazione alle dipendenze?
Maggiore è la messa in discussione, lo sviluppo di una capacità critica, maggiore è la consapevolezza e l’accettazione della propria storia. Spesso le persone ci raccontano le loro storie ma altrettanto spesso è una narrazione molto conflittuale, difficile da “reggere”. A volte viene quasi vomitata, con un messaggio implicito del tipo: “prenditela tu, perché io non la voglio”. A quel punto lo sforzo è quello di portare il paziente a non essere nemico di sé stesso; quindi l’autodeterminazione arriva, dal mio punto di vista, nel momento in cui il paziente accetta il proprio bagaglio. Nel momento in cui non si porta dietro la propria storia rinchiusa dentro una valigia trascinandosela a forza, ma la accetta e trova nel proprio vissuto – nel proprio dolore – il senso di sé, restituendo dignità al dolore e ricostruendo la propria identità. Se il dolore viene percepito come una parte di sé l’autodeterminazione diventa possibile; le esperienze negative e i vissuti ad esse associati non smettono di far male ma la loro elaborazione consente di individuare il loro corretto significato nella storia della persona eliminando le interferenze con la realizzazione della propria esistenza.
Per fare un esempio concreto: il rapporto con mia madre può essere stato difficilissimo, continuerà a farmi male ma non interferirà più nelle relazioni, dunque non sarà più d’ostacolo alla mia realizzazione. È un lavoro difficilissimo, si riesce a fare con persone che hanno buone risorse e hanno quella resilienza che consente loro di mettersi in gioco con la propria sofferenza.
Considerando la sua lunga esperienza al S.erD di Frosinone, come sono cambiati i bisogni nel tempo e, di conseguenza, le risposte a quei bisogni da parte degli operatori?
Sono aspetti sui quali ci confrontiamo costantemente con i colleghi. È cambiato tanto, come prima cosa è cambiata l’utenza. Quando sono arrivata al Ser.D di Frosinone c’erano molti eroinomani che utilizzavano la sostanza per via iniettiva; mi è capitato di vedere delle overdose o alcune crisi di astinenza come quelle descritte in letteratura. Erano immagini che scuotevano molto, rimandavano la sensazione dell’urgenza di un intervento. Colpivano profondamente, sollecitavano la tipica risposta di chi lavora in questo ambito: il dover “salvare” il paziente, in maniera onnipotente. Successivamente arrivava la consapevolezza dell’assoluta impotenza di fronte alla difficoltà dell’aggancio con il paziente che faceva fatica a colludere con l’essere salvato. Quel periodo è durato pochi anni perché si è manifestato subito il cambiamento epocale che ha portato la cocaina ad essere la prima sostanza di utilizzo con una modalità diversa che non portava più all’overdose. Questa fase ci ha messo di fronte alla necessità di approfondire la formazione rispetto ai trattamenti possibili e alla costellazione di sintomi presentati, in particolare quelli psichiatrici.
Abbiamo dovuto cambiare il nostro assetto terapeutico che tuttavia non si è modificato nelle sue componenti di base, ossia un’accoglienza acritica della persona dipendente da sostanze e l’assenza di liste d’attesa. Abbiamo affinato l’aspetto della valutazione psicodiagnostica, abbiamo cercato di restituire al paziente la sensazione di una presa in carico solida che comprendesse non soltanto l’ascolto, ma anche l’idea che in questo servizio si facesse un trattamento validato sul piano scientifico. Che la cura della tossicodipendenza non era solo – come per molti anni in altri contesti era stata proposta – una pratica di accoglienza tendente alla rieducazione, ma una patologia sancita clinicamente a cui bisogna rispondere con un trattamento che ha dei requisiti validati sul piano della letteratura scientifica. In questo modo il paziente ha accettato meglio aspetti più formali come le visite mediche, i controlli farmacologici, gli approfondimenti diagnostici. Siamo arrivati ad avere un approccio non medicalizzato che ha nella sua struttura degli aspetti identificabili.
La tossicodipendenza, diceva, non è sempre stata considerata una patologia. Sul piano emotivo quali sono le implicazioni che derivano da questo cambio di paradigma per il paziente?
Dipende dalla persona. Quando il paziente arriva qui si attribuisce una serie di giudizi negativi: “sono un debole”, “sono un fallito”, “non ci riesco”. La prima cosa che fa è buttare fuori tutto quanto percepisce essere identificabile con la sua incapacità, la sua fallibilità, quasi a mettere le mani avanti. Rimandare al paziente l’idea che ciò di cui soffre è una patologia, gli restituisce un po’ di responsabilità rispetto alla cura: riconoscergli che ha delle fragilità è importante, ma è altrettanto importante definire che esse costituiscono un sintomo che è parte di una patologia. La fragilità è un sintomo della patologia che dobbiamo curare fornendo al paziente degli strumenti da fare propri. Il concetto della patologia, da un lato, può essere un elemento che aggiunge complessità perché il paziente potrebbe tendere a giustificarsi, ma dall’altro un buon lavoro terapeutico gli restituisce la responsabilità della sua possibilità di cura.