Quasi al termine del nostro viaggio allo Zen di Palermo, abbiamo conosciuto Alessandra Notarbartolo, referente per le attività promosse per valorizzare la differenza di genere e nell’ambito del contrasto e della prevenzione della violenza di genere. Alessandra ci ha raccontato lo Spazio Mamme attraverso il lavoro che svolge da anni al fianco delle madri che, individualmente ma anche insieme ai loro bambini e alle loro bambine, prendono parte alle attività del Laboratorio Zen Insieme.
Oltre a presentarci nel dettaglio le attività portate avanti dall’Associazione, abbiamo parlato della genitorialità e dei cambiamenti che, soprattutto a seguito della pandemia, hanno contribuito a creare un modo diverso di essere madri, nuove difficoltà da affrontare: l’aumento del lavoro di cura, da sempre appannaggio delle donne, la necessità di trovare un reddito o, al contrario, di restare a casa sostenendo il lavoro dei mariti, l’aiuto ai figli e alle figlie nella didattica a distanza. Non dimenticando, poi, l’importanza di discorsi e pratiche che mettano al centro i diritti, ancora troppo vulnerabili, delle donne.
«I servizi di prevenzione per tutto quello che ruota attorno alle donne sono importanti: i vaccini contro il Papilloma Virus, ad esempio, costano moltissimo, poi ci sarebbe il discorso sull’applicazione della 194, quindi il diritto all’interruzione di gravidanza, l’accompagnamento alla nascita. Non si tratta di veterofemminismo, come chi non vuole capire dice, è un cerchio che si chiude».
Ci parli un po’ di Spazio Mamme e delle attività che svolgete?
Spazio Mamme è un programma parallelo al Punto Luce, che gestiamo insieme a Save the Children, dedicato a bambini e bambine da zero a sei anni e alle mamme. In realtà ai genitori, ma in questo caso le madri rappresentano il fulcro. Dunque si tratta di un programma fondato sul benessere dei bambini e delle bambine da zero a sei anni, ma questo presupposto comporta l’esistenza di un mondo attorno: sostegno alla genitorialità, all’autonomia e all’autodeterminazione, accompagnamento ai servizi. Attraverso le mamme, i bambini e le bambine lavoriamo in alleanza assoluta con le famiglie, perché non è possibile portare a compimento un progetto educativo se non si è in alleanza con i genitori.
È difficile raccontare, potrei provare a farlo attraverso i fatti. In primo luogo proponiamo attività rivolte alle donne, lasciando loro uno spazio di recupero del loro tempo, della cura di sé, del rilassamento. Negli anni abbiamo organizzato corsi di Yoga, Zumba e Fitness, ma anche cucito, serigrafia e un laboratorio di cucina con un programma dedicato alla sana alimentazione. Insomma, attività grazie alle quali le mamme possano sperimentare sé stesse in un ambiente protetto in cui i loro figli e le loro figlie fanno altro insieme a noi educatrici. Parallelamente alle attività per le mamme ci sono quelle per i bambini, come il gioco libero che si svolge nello spazio morbido già a partire dai sei mesi, utile a stimolare la motricità e a sviluppare abilità logico-matematiche. Poi ci sono le attività mamma-bambino, che consideriamo di supporto alla genitorialità. La lettura ad alta voce, che inizia a partire dalla gravidanza, ha avuto molto successo, soprattutto prima del lockdown. Avevamo organizzato un laboratorio in presenza nella biblioteca, dopodiché abbiamo continuato online e durante il periodo di isolamento alcune mamme ci hanno inviato dei video in cui leggevano ai loro figli e alle loro figlie. Oltre alla spesa, in quel periodo terribile in cui c’è stato un acuirsi dei bisogni enorme, ci hanno chiesto dei libri. Erano tra le loro necessità.
Alessandra Notarbartolo nel cortile del Laboratorio Zen Insieme. Fotografia di Francesco Formica
Cito anche il Laboratorio dei Lego in cui le mamme e i bambini devono immaginare insieme un mondo nuovo attraverso stimoli di progettualità positiva, questo perché per noi è fondamentale lavorare sui desideri, non soltanto sui bisogni. La risposta al bisogno ovviamente deve esserci, e non deve essere mai assistenzialismo ma percorso. Questa presa in carico della famiglia è una presa in carico a 360 gradi: lavoriamo con il consultorio se c’è un’esigenza di invio, con il reparto di neuropsichiatria infantile, con il servizio sociale. Abbiamo cercato di spiegare che chiedere aiuto è un valore, non una cosa per cui si viene punite. Mettiamo a disposizione uno sportello legale gratuito per le piccole questioni civili, curiamo l’orientamento al lavoro e aiutiamo a compilare i curricula. Ciò che offriamo è al confine tra servizio, centro aggregativo, mutuo-aiuto.
Qual è l’età media delle madri?
Dico sempre che c’è un prima e un dopo covid. Con la pandemia nel quartiere abbiamo registrato un aumento enorme della natalità: sono tutte mamme giovani, il primo figlio in genere ce l’hanno a diciannove o vent’anni. L’altro aspetto post covid sono le gravidanze delle minorenni che non si verificavano più da anni, perché in una città devastata dal punto di vista della sanità pubblica e sociale, dei presidi territoriali, abbiamo un consultorio storico allo Zen che è a pieno regime: la ginecologa, l’assistente sociale, l’ostetrica e la psicologa che lavorano in équipe hanno svolto un grande lavoro di prevenzione.
Quest’anno abbiamo avuto tre gravidanze in ragazzine di quattordici anni, per noi è un numero grandissimo. È un effetto della pandemia, del calo dei desideri, della speranza, della progettualità. Magari queste ragazzine in altri momenti uscivano, avevano altre idee, ora si sono ritrovate a non nutrire altro desiderio che fidanzarsi. Dall’altro lato ci sono nonne di trentacinque-quarant’anni con le quali lavoriamo sul passaggio di competenze della genitorialità.
Ci sono delle donne che hanno trovato lavoro grazie alle competenze acquisite qui, che hanno scoperto un talento?
Ce ne sono diverse, parlando sempre di autoimprenditoria. Una mamma fa la sarta, mentre un’altra ha iniziato a fare volontariato e ora è una nostra operatrice. Un’altra mamma, dopo aver preso la certificazione haccp, ha avuto la possibilità di svolgere un periodo di tirocinio presso Cuoche Combattenti, un’impresa che nasce dal percorso di uscita dalla violenza. Si preparano conserve, pesti, marmellate e sopra il tappo di ogni barattolo è possibile trovare un’etichetta con una frase contro la violenza. Ancora, un’altra mamma ci ha raccontato che il marito ha costruito un camerino, alzando un muro nella loro casa, dove lei si è ritagliata il suo spazio creativo, riempiendolo di stoffe e colori.
Lavori da anni a stretto contatto con le donne. Secondo la tua percezione è cambiato con il tempo il modo di essere genitori, di essere madri?
Per me il covid è uno spartiacque. La pandemia e l’isolamento hanno caricato tutto sulle spalle delle donne, le madri si sono ritrovate a dover scegliere di lavorare a casa – per le fortunate che avevano un lavoro – dovevano accudire i figli o comunque sostenere il lavoro del marito fuori casa. Il lavoro di cura, che già normalmente è sulle spalle delle donne, è stato moltiplicato per mille. Il lavoro di cura è una cosa meravigliosa, ma quando è sostenuto dai servizi e poi deve essere consapevole e condiviso. Nel momento in cui si trasforma in un obbligo, una responsabilità unica, chiaramente diventa un peso.
Lo Spazio Mamme all’interno del Laboratorio Zen Insieme. Fotografia di Martina Lambazzi
La pandemia è stata uno scossone nel mezzo di un percorso che si stava iniziando a fare – parlo sempre di genitorialità in quartieri difficili, non in assoluto – e ora si sta tornando un po’ indietro, con tutto il peso che questo comporta. A volte le mamme venivano da noi piangendo perché non sopportavano più i figli: tutte e tutti noi dobbiamo assumerci l’onere di questo peso. Allo stesso modo oggi c’è molta più voglia di attivare le proprie risorse, abbiamo mamme che non avevano neanche la terza media, disperate all’idea di aiutare i loro figli e le loro figlie nella Dad, che poi si sono scoperte assolutamente in grado di farlo oppure mamme che si sono attivate per trovare un piccolo reddito casalingo. Lo scossone di cui parlavo ha prodotto questi due risultati, quindi la genitorialità è stata molto influenzata da questo passaggio.
Che ruolo hanno i padri? Qualcuno di loro frequenta lo Spazio Mamme?
Nello Spazio Mamme ce ne sono pochi. Il primo anno è stato complicato, ricordo una signora che a un certo punto ha smesso di venire perché, ci ha raccontato, il marito non era d’accordo. Lei aveva condiviso le attività a cui prendeva parte, ma la risposta è stata: «tu vai lì e ti apri il cervello». Questa cosa per lui era intollerabile. Poi c’era la percezione di vederci come un servizio, quindi la paura che potessimo intervenire in maniera invadente: «non dire questo», «non dire quell’altro». È un lavoro che si costruisce mattoncino su mattoncino, negli anni, e con la relazione. Non c’è altro modo.
In che modo le mamme hanno iniziato a venire qui, a fidarsi?
Alcune colleghe lavoravano a scuola prima di aprire questo centro, quindi già si occupavano di bambini e bambine di età diverse, accompagnandoli allo studio e strutturando dei laboratori, per cui si era creata una relazione con queste prime famiglie. Quando lavori con bambini e bambine qualcosa la raccogli sempre. In una comunità dove i bisogni sono così forti sapere che qualcuno si occupa dei propri figli e delle proprie figlie è importante. Le mamme inizialmente accompagnavano soltanto i bambini, piano piano hanno iniziato a fermarsi anche loro.
Le prime mamme sono venute da noi chiedendoci di praticare Zumba: con il computer e le casse si sono organizzate per fare lezione da sole. Tutt’ora questo è l’aggregante maggiore, perché è un modo per divertirsi e sfogarsi. In più c’è un po’ di sano istrionismo, si sentono libere di dire: «mi piace ballare», «mi piace cantare». Questa è stata la cosa che ci ha permesso di aggregarle.
Il secondo e il terzo anno abbiamo chiamato un’operatrice dal Ghana per fare lezione di danza afro e quando abbiamo organizzato la festa dei trent’anni dell’Associazione si sono esibite in una coreografia. Tutti gli anni poi organizziamo il flashmob contro la violenza di genere, One billion rising. Un anno abbiamo deciso di farlo qui come provocazione, c’è stata una grande partecipazione ed è stata un’esposizione simbolica forte. Ovviamente piantiamo dei semi, molte vanno via per poi tornare, magari, dopo qualche tempo, ma questi restano strumenti a loro disposizione. L’autodeterminazione è anche lasciare alle persone la libertà di fare l’uso che ritengono degli strumenti acquisiti, senza imposizioni.
Vi è mai successo di accogliere donne che vi hanno raccontato di essere state vittime di violenza?
È successo. A Palermo abbiamo la fortuna enorme di avere la rete antiviolenza cittadina, è l’unica città in Italia. Raccoglie tutte le istituzioni e gran parte delle Associazioni del terzo settore che lavorano con le famiglie e con i bambini: c’è la procura dei minorenni e quella ordinaria, la polizia, i carabinieri, gli ospedali, il servizio sociale. È una rete che funziona con delle procedure ormai strutturate e verificate, quindi quando accade prestiamo un primo ascolto ed effettuiamo immediatamente l’invio al centro antiviolenza, dove tra l’altro lavoro anche io. Facciamo anche moltissimo lavoro a scuola su questo. È un lavoro importante, non solo per l’emersione del problema, ma per la prevenzione.
C’è qualcosa che senti di dover aggiungere prima di salutarci?
Sarebbe molto importante ottenere la possibilità di un percorso educativo pubblico e strutturato per la fascia d’età dagli zero ai tre anni. Dev’essere garantito per tutti e tutte ma l’idea che il nido sia un diritto dei bambini e delle bambine, non soltanto dei genitori che lavorano, non sembra essere condivisa. Noi abbiamo un nido allo Zen 1, ma ha un orario ridotto perché non c’è personale sufficiente, in più c’è un numero di accoglienza bassissimo: venti bambini a fronte di una popolazione ufficiale di 17.000 abitanti, ma in realtà sono quasi il doppio. Sono proprio i bambini e le bambine che restano a casa con i genitori ad aver bisogno dell’accesso al nido per disporre di un percorso educativo altro. È un problema culturale la cui ricaduta grava anche sulle famiglie, che non vedono il nido come un’opportunità. Questa è una delle nostre battaglie culturali e istituzionali.
Alessandra Notarbartolo al Laboratorio Zen Insieme. Fotografia di Martina Lambazzi
Altrettanto importanti sono i servizi di prevenzione per tutto quello che ruota attorno alle donne: i vaccini contro il Papilloma Virus, ad esempio, costano moltissimo, poi ci sarebbe il discorso sull’applicazione della 194, quindi il diritto all’interruzione di gravidanza, l’accompagnamento alla nascita. L’ospedale Cervello, un riferimento per tutta la zona Nord, ha convertito il reparto di Ostetricia e Ginecologia in reparto Covid per più di un anno. Per le visite ginecologiche tutta la zona Nord doveva arrivare al Policlinico, dove si trova la stazione centrale. Il consultorio era oberato, perché una delle pochissime ginecologhe pubbliche non obiettrici lavorava lì. È un problema culturale, anche qui, che non è solo territoriale. Non si tratta di veterofemminismo, come chi non vuole capire dice, è un cerchio che si chiude.