«Il tempo che intercorre tra l’istinto e la consumazione istintuale rappresenta il pensiero», Filippo Morabito
Qual è il rapporto tra autodeterminazione, identità e tossicodipendenza? Quali sono le criticità e le fragilità che rendono più difficile il raggiungimento dell’autodeterminazione e dunque la costruzione di un’identità?
In un cerchio di interventi, all’interno del Ser.D di Cassino, Filippo Morabito, direttore DSMPD e primario, Anna Castellana, psicoterapeuta, e Alessandro Ricci, medico del servizio, rispondendo a queste domande, ci hanno spiegato quanto i margini di ognuno siano suscettibili alla mutevolezza delle relazioni e agli imperativi imposti dalla nostra società, che continua a respingere le fragilità. La consapevolezza necessaria per riconoscere i propri margini esistenziali, per passare le dita sulle fratture ammassate lungo i bordi e per fare di questi uno spazio di identità.
Filippo Morabito al Ser.D Cassino. Fotografia di Francesco Formica
«Il mio professore di psichiatria diceva che “il tempo che intercorre tra l’istinto e la consumazione istintuale rappresenta il pensiero, più questo tempo si dilata più abbiamo la capacità di sviluppare un pensiero complesso”. È ovvio che, quando questo tempo diventa quasi inesistente, quando la consumazione dell’istinto è immediata allora il pensiero non esiste. L’autodeterminazione presuppone una cosa fondamentale, che è la libertà. Per autodeterminarsi bisogna essere liberi. Andando per grandi capitoli, la libertà presuppone che la persona sia quanto meno sana o che magari non muoia di fame. Se non ho possibilità di mettere insieme il pranzo con la cena, qual è la mia autodeterminazione? Il concetto dell’autodeterminazione è qualcosa di veramente molto ampio».
«Un tossicodipendente mette in scena il falso sé, perché ha bisogno di entrare in relazione col mondo», Anna Castellana
«Sposterei l’asse dall’autodeterminazione alla costruzione del sé e del falso sé. La costruzione del sé è un percorso molto complesso, doloroso ed è un percorso relazionale. Se vengono a mancare tutte quelle premesse, quei presupposti di base, che ogni individuo dovrebbe avere per accedere a un’identità sufficientemente buona e adeguata, la persona sente il bisogno di mettere in movimento una serie di risorse, non sempre positive, per costruirsi un’identità perché altrimenti non riuscirebbe a entrare in relazione con il mondo.
Un tossicodipendente mette in scena il falso sé, perché ha bisogno di entrare in relazione col mondo e quindi deve trovare una strategia, una soluzione. Il tentativo di costruzione dell’identità è quello del falso sé. Se si toglie la sostanza, ma parallelamente non si è riusciti a costruire, seppur fragilmente, quel piccolo sé, attraverso la psicoterapia, il trattamento e tutte quelle cose che possono essere inserite nel frattempo, la persona tossicodipendente si ritrova in un vuoto esistenziale, proprio dal punto di vista identitario, e ovviamente non regge.
La psicoterapia serve per aprire degli spazi di consapevolezza, perché un tossicodipendente è convinto di fare la cosa giusta assumendo sostanze. Se voi aveste occasione di vedere persone che usano sostanze e che sono in una fase compensata, difficilmente vi accorgereste, perché sono persone che hanno una struttura sufficientemente adeguata, finché non si scompensano. Quello è il loro biglietto da visita, molto spesso sono più adeguati di persone non assuntori, che magari hanno dei comportamenti un po’ sopra le righe.
Anna Castellana al Ser.D Cassino. Fotografia di Francesco Formica
Il problema è che il tossicodipendente non ha assolutamente consapevolezza del falso sé. Quindi il lavoro iniziale consiste innanzitutto nell’aumentare la consapevolezza della patologia e di tutto ciò che ha perso mentre la agiva. Se un ragazzo, ad esempio, comincia a usare sostanze in adolescenza non riesce a sviluppare tutta quella fase di rodaggio necessaria per essere poi in grado di mettere in atto comportamenti adulti, vedere se sono adeguati e confrontarli nella realtà, nell’azione e nelle relazioni, confrontarli con il suo contesto di riferimento.
Le persone che tolgono la sostanza si ritrovano bambini: un uomo di quarant’anni che ha accumulato vent’anni di tossicodipendenza si ritrova sguarnito, assolutamente incapace di riconoscersi. E lo verbalizzano, questa è la cosa interessante: tante volte ho chiesto ai miei pazienti quanti anni si sentissero, spesso la risposta è stata “me ne sento tre”. È questo l’aspetto che va recuperato, la psicoterapia serve a recuperare gli aspetti di sé che sono rimasti in germe e che devono assolutamente evolvere».
«Abbandonare la certezza di un’etichetta – “sono tossicodipendente” – significa mettersi di fronte alla propria sofferenza e al proprio male di vivere, senza sapere quali saranno i risultati», Alessandro Ricci
«Il momento dell’ingresso in comunità rappresenta un salto nel vuoto. Bisogna abbandonare la certezza di un’etichetta – “sono tossicodipendente” – dietro la quale si nascondono una serie di insicurezze, incapacità a vivere. Abbandonare la sicurezza di non avere responsabilità significa mettersi di fronte alla propria sofferenza e al proprio male di vivere, senza sapere quali saranno i risultati. Questo percorso significa abbandonare per sempre la prospettiva di una vita vissuta senza sostanza, quindi ci si mette in gioco completamente. Abbiamo avuto pazienti, almeno quattro o cinque ragazzi, che una volta usciti dalla comunità hanno scelto la morte. Hanno scelto, più o meno coscientemente, di suicidarsi.
Alessandro Ricci al Ser.D Cassino. Fotografia di Francesco Formica
Qui si torna all’autodeterminazione della persona: nel momento in cui spingiamo verso la scelta del percorso comunitario ci poniamo di fronte a una scelta di vita seria. Posso riportare l’esempio di un ragazzo, figlio di un famoso pittore, che dopo la morte del padre ha iniziato la sua storia di tossicodipendenza. Dopo aver perso gran parte dei beni di famiglia, è stato mandato nella comunità di San Patrignano, nel frattempo la madre ha venduto la casa di famiglia. Una volta uscito ha ritrovato la casa paterna completamente spoglia dei quadri del padre, dei mobili. Si è ritrovato improvvisamente senza identità, completamente nudo. Senza più essere un tossicodipendente, senza più essere figlio di quella casa, di quel padre, della sua storia. Una mattina, la madre lo ha trovato seduto a guardare la casa. Lo ha chiamato, senza ricevere alcuna risposta, si è avvicinata, lo ha toccato e il figlio era morto».
«I modelli culturali che non consentono le fragilità umane sono espulsivi», Filippo Morabito
«Secondo il nostro modello culturale bisogna soddisfare tutto subito, non c’è più spazio per l’attesa. Il costruire costa fatica e la fatica sembra che non afferisca ai modelli culturali attuali. I determinanti sociali di salute, specialmente in certi tipi di patologia, hanno un’importanza straordinaria. Tutte le situazioni di conflitto o di relazioni fallite espongono alle patologie, che possono essere legate alla dipendenza o alla malattia mentale. Stiamo parlando infatti di problemi che coinvolgono la relazione.
La nostra è una società prestazionale e i modelli culturali che non consentono le fragilità umane sono espulsivi. Relegano in posizione marginale le persone che non sono capaci di reggere quelle prestazioni. Si tratta di un problema complessivo, di come si pensa una società che possa essere inclusiva, capace di accogliere le fragilità e di formare i giovani. Molti non sanno che un intervento più strutturato e più capace dall’inizio determina un risparmio a livello sociale, non solo economico, ma legato proprio alla costruzione di una società più sana».