Con Lucio Maciocia, psicoterapeuta e responsabile U.O.C. Patologie da Dipendenza della Asl di Frosinone, abbiamo riflettuto sui legami primari che segnano – e plasmano – l’esistenza dell’Altro, sul pericolo della violenza come fattore identitario, sulla mancanza del senso di comunità nelle nostre vite. Al centro del nostro confronto l’idea di relazione come atto fondativo dell’umano.
«Dobbiamo migliorare la nostra qualità della vita e la qualità della vita rimanda alla qualità delle nostre relazioni, al numero delle nostre relazioni, all’intensità di queste relazioni».
Tossicodipendenza e relazione. «Abbiamo buone probabilità che un bambino stia bene se curiamo la mamma»
«La tossicodipendenza è una patologia delle relazioni. Di solito è la patologia delle relazioni che può portare a disturbi di salute mentale o a disturbi nell’ambito delle dipendenze, ciò vuol dire che non esiste un gene della pazzia. Il grado di successo dell’uomo sulla terra è la capacità nel tempo di occuparsi del cucciolo, di farlo crescere totalmente sicuro perché sono gli adulti a difenderlo, ma allora tutto dipende da come vivono, dal loro grado di salute, dalla loro capacità di relazionarsi al bambino in termini positivi e in termini di accoglienza. Se non si verificano queste condizioni è probabile che il bambino, sin dagli esordi, esperisca delle relazioni e dei sentimenti in termini molto negativi.
Alcune delle malattie mentali più gravi hanno a che fare con processi che sono decisamente precoci, vale a dire che già dal periodo di gestazione il collegamento tra una madre e il bambino è molto forte ed è dimostrato scientificamente che è molto forte anche la dimensione emotiva: come sta la mamma così sta il bambino. Se la madre è in sofferenza, o viene picchiata o si sente sola o non ha una struttura di accoglienza intorno e questa condizione predomina, per il bambino è come mangiare ogni giorno pane e veleno. L’emozione passa ma il problema grande è che non avendo una strutturazione di pensiero che gli permetta di comprendere ciò che accade rimane l’emozione e, se negativa, predomina. Segna in maniera molto forte. Abbiamo buone probabilità che un bambino stia bene, dunque, se curiamo la mamma.
Eventi gravi di schizofrenia, di malattia mentale, sono spesso derivati da queste esperienze emozionali precoci in cui non era ancora formata una mente che potesse elaborare le emozioni. Il cervello, tra le altre cose, è uno degli organi più elastici che ci sia quindi la psicoterapia funziona, non c’è ombra di dubbio, e ha un aspetto curativo perché una persona può apprendere come pensare. La psicoterapia è questo: accompagnare una persona nel pensiero e nel raccontarsi la propria storia assumendo un punto di vista di diverso».
Il gruppo psicoanalitico multi-familiare. «Consideriamo il disturbo come espressione di una relazione malata spostando l’attenzione dal sintomo alla relazione»
«Ho appena terminato un’attività di formazione relativa al gruppo psicoanalitico multi-familiare, uno strumento che stiamo cercando di utilizzare molto perché potentissimo. A partecipare sono familiari, pazienti o anche persone sole che raccontano la propria storia. L’intento è quello di considerare il disturbo come espressione di una relazione malata spostando l’attenzione dal sintomo alla relazione, dando così l’opportunità alla persona di sviluppare relazioni completamente diverse. Proviamo a inserire il disturbo all’interno di una storia personale ma proviamo anche a capire la storia familiare di ciascuno e spessissimo ci rendiamo conto che quello che è capitato ai genitori è successo anche ai figli: i drammi che sono accaduti all’interno di una famiglia, le scelte che hanno portato a scegliere questa o quella compagna, hanno molto a che fare con la propria storia familiare.
Tali scelte possono produrre delle unioni e delle forzature nella formazione familiare che hanno delle ripercussioni sui figli. Se c’è pazzia la pazzia rimane, non perché geneticamente data ma perché il figlio vive in ambienti in cui la disfunzionalità è la regola: sono nato lì e non ho mai fatto esperienza di qualcosa di diverso, per esempio, dalle botte, dalla violenza. Questa abitudine diventa un qualcosa che può essere quasi definito genetico semplicemente perché vivendo in un ambiente violento io sono diventato violento, il mio primo atto individuale di riconoscimento è quando ho preso per il bavero mio padre e gli ho detto: “fermati! Non picchiare più mia madre o non picchiarmi più”. Di fatto sono ricorso alla stessa violenza e l’ho fatta mia: mi sono fottuto con le mie stesse mani. È possibile cambiare, ma si passa attraverso l’accoglimento di un dolore così grande, della paura che ne è derivata, della rabbia che ne è scaturita ed è necessaria un’elaborazione di pensiero, di una narrazione, che permetta alla persona di tenere sotto controllo l’aggressività che ha».
Tossicodipendenza e senso di comunità. «Dobbiamo migliorare la nostra qualità della vita e la qualità della vita ha a che fare con la qualità delle nostre relazioni»
«Insieme a una serie di associazioni e comunità abbiamo creato la “Rete di Sistema Integrato Patologia delle Dipendenze” con l’obiettivo di costruire una modalità di azione comune verso il territorio, a tal proposito abbiamo organizzato cinque eventi che si stanno svolgendo proprio in questi giorni. Il primo ha avuto luogo a Ceprano con l’associazione “La Torre” in occasione del quale c’è stata la presentazione del libro Come nasce un fiore, scritto da una giovane paziente psichiatrica che ha raccontato la sua personale esperienza in maniera molto bella, direi pittorica.
Il secondo incontro si è svolto nella comunità residenziale “in Dialogo”, a Trivigliano. Con loro da tanti anni stiamo riflettendo sul fatto che uno dei punti di forza di una comunità residenziale è proprio la comunità, ossia la qualità della vita che ogni giorno un ragazzo si trova a sperimentare in quel contesto. Ti svegli la mattina e condividi la tua vita insieme con qualcun altro, ti assumi la responsabilità di questa vita in maniera educativa e al contempo, di fatto, esperisci una qualità della relazione molto forte nella misura in cui il tuo comportamento incide immediatamente sulla risposta dell’altro e ne discuti, lo valuti. È una cosa che non accade usualmente, per cui di fatto la riflessione è che manca un senso di comunità nelle nostre società, nella vita quotidiana di ognuno di noi.
A scuola non si lavora con il gruppo, ci si ritrova a strappare il sei che è una conquista individuale. Adesso, in misura sempre maggiore, i ragazzi non giocano più in strada con gli altri, la dimensione comunitaria è molto meno forte, la cerchia di amicizie degli adulti è diminuita, la televisione e internet sono surrogati di rapporti. C’è una relazionalità decisamente minore e tutto questo ha a che fare con il fatto che dobbiamo migliorare la nostra qualità della vita e la qualità della vita rimanda alla qualità delle nostre relazioni, al numero delle nostre relazioni, all’intensità di queste relazioni».