Che le periferie nascano come estensioni urbane delle fabbriche è cosa nota: dagli inizi del ‘900 l’urbanistica e poi l’architettura sono chiamate a rispondere alle esigenze dell’economia industriale moderna. La crescita della popolazione che abitava le città aveva bisogno di più spazi edificabili.
Se nascono, quindi, come soluzione per alloggiare prevalentemente gli operai delle catene di montaggio e le voci meno potenti della piccola e media borghesia, nei decenni successivi iniziano ad essere pensate non più come agglomerati-dormitorio o come casermoni rigidamente suddivisi in appartamenti dalle metrature standardizzate, bensì come veri e propri quartieri all’interno dei quali sperimentare forme alternative di socialità, una sorta di collettivismo urbano in grado di bastare a se stesso.
L’urbanistica collettiva è l’idea che muove la costruzione e l’ideazione delle periferie negli ultimi decenni del ‘900. L’obiettivo era fare della lontananza dal centro non soltanto un tratto distintivo, ma la ragione di una socialità nuova. Eppure, in Italia, il suo fallimento ha man mano lasciato campo libero a prospettive di costruzione individualiste e ha frenato la progettazione delle grandi opere di edilizia popolare, simbolo delle costruzioni di massa del secolo passato.
Urbanistica collettiva. La mancata contestualizzazione dell’idea
Con Le Corbusier architettura ed urbanistica si abbracciano una volta per tutte, assumendosi la responsabilità di realizzare complessi abitativi e dunque quartieri fondati su una nuova linea ideologica, quella dell’urbanistica collettiva.
Fotografia di Francesco Formica
La progettazione delle strutture e degli edifici nelle zone periferiche è ormai orientata a offrire servizi e attività dall’interno, con lo scopo di ridurre al minimo la necessità di uscire dal quartiere. Ne è un esempio magistrale l’Unité d’Habitation di Marsiglia, nominata cinque anni fa patrimonio dell’UNESCO. Le Corbusier ha pensato bene di interrompere i 18 piani di appartamenti di cui si compone l’edificio con due piani, precisamente il settimo e l’ottavo, di corridoi pubblici in cui sono stati allestiti un centro commerciale e vari punti vendita, tra cui macelleria, pescheria, attività commerciali per la vendita di frutta e verdura, panetteria e altri servizi ancora.
Sull’impronta dell’urbanistica collettiva vedono la luce, in Italia, le Vele di Scampia, il Corviale a Roma, lo Zen di Palermo, Gallaratese a Milano, ben lontane però dal tetto giardino con piscina, campo giochi per bambini, palestra, pista da 300 metri per la corsa e solarium con accesso al bar presenti all’interno dell’Unité d’Habitation.
Il limite principale nell’urbanistica sociale in Italia e anche negli Stati Uniti è stato quello di non contestualizzare, non considerare dunque la rete sociale in cui queste strutture venivano inserite e in quale modo avrebbero interagito con gli equilibri già esistenti.
L’incremento del disagio e della criminalità legato all’assetto urbanistico delle periferie ha portato all’attivazione di un programma internazionale di demolizione, inaugurato nel 1974 negli Stati Uniti, rivolto a molti quartieri periferici realizzati tra gli anni Cinquanta e Settanta. Rientra nello stesso piano di demolizione anche quella delle sette Vele di Scampia – l’ultima demolita a febbraio 2020 – delle quali soltanto una è sopravvissuta per essere riqualificata, la vela celeste. Decisione che denuncia nello stesso momento sia il fallimento del welfare, che quello dell’urbanistica collettiva in Italia.
Non è però un risultato che dovrebbe sorprendere, considerando la mancata contestualizzazione dell’idea iniziale ai territori di insediamento. La conseguenza principale prodotta dall’edilizia collettiva nelle periferie è stata un sostanziale inasprimento dell’isolamento in cui determinate zone già versavano in maniera preoccupante. Da qui il passaggio alla chiusura nei confronti delle zone limitrofe è stato piuttosto scontato, praticamente ovvio nell’eseguimento.
Fotografia di Francesco Formica
Spesso il senso di appartenenza ad un luogo e l’identificazione totale in un gruppo sociale è la causa del soffocamento e della non attingibilità di e a se stessi. L’attitudine alla comunità, per quanto linfa dei cambiamenti civici più importanti, se assolutizzata, aumenta il rischio della perdita dell’individualità. Anche la realizzazione e la suddivisione degli spazi dei singoli appartamenti lo dimostrano: porzioni tutte uguale e fisse nei metri considerati idonei per trascorrere privatamente il proprio tempo. Viene chiesto alle persone di adeguarsi ad un’architettura standardizzata che favorisce il senso della comunità, non è l’architettura che incontra le richieste e le esigenze dell’individuo.
Nei quattro decenni circa di esistenza delle Vele di Scampia, lo scopo iniziale del progetto dell’architetto Franz De Salvo, che prendeva ispirazione dalla conformazione dei vicoli napoletani del centro storico, è progressivamente morto: voleva fare delle Vele l’emblema dell’architettura collettiva e sociale, rispondente alle linee guida economiche e politiche della seconda metà del ventesimo secolo. Anche per questo il complesso residenziale delle Vele riduceva allo stretto necessario gli spazi degli appartamenti per favorire quelli dedicati alla socialità esterna e interna alle strutture.
Tutto è finito in un cumulo di macerie. Un progetto che nasceva come soluzione all’aumento demografico e come riqualificazione dell’edilizia popolare viene a sua volta scalzato da un altro progetto, Restart Scampia, che lo demolisce sia nella pratica che nella teoria.