Con Nicoletta Landi, antropologa e formatrice nell’ambito dell’educazione alla sessualità per adolescenti e pre-adolescenti, abbiamo riflettuto sul valore simbolico del corpo, che si muove verso la ricerca di un’identità ma allo stesso tempo si nutre di relazione.
Dal confronto è emersa la necessità di una rappresentazione più inclusiva e autentica dei corpi, l’importanza di educare alla sessualità intesa non come performance ma come intimità, oltre al delicato equilibrio tra libertà di azione sui corpi e cura dell’esistenza altrui che, come abbiamo sperimentato nell’ultimo anno, è strettamente connessa alla nostra.
Di cosa si occupa l’Antropologia del corpo?
È un ambito di studi che si occupa di corpo e malattia, performance ed espressione artistica, ma più precisamente si tratta di una parte dell’Antropologia che non fa solo tema a sé. È una lente attraverso la quale la disciplina antropologica legge, interpreta e problematizza il corpo che, oltre ad essere un dato naturale, è anche uno strumento espressivo, un prodotto socio-culturale sul quale incidiamo immaginari, attraverso il quale perpetriamo pratiche e ci relazioniamo quotidianamente con l’alterità.
Io ho iniziato occupandomi di Antropologia del corpo, tuttavia ho virato in maniera immediata sugli studi legati all’antropologia del corpo sessuato. Ad ogni modo, guardare al corpo con le lenti dell’Antropologia culturale vuol dire concepirlo come un luogo di azione e in cui si inscrivono significati mobili, mutevoli, socio-culturali, economici e politici.
So che ti sei occupata di BDSM, cosa hai appreso sul corpo durante la tua indagine?
Ci tengo a dire che quella sul BDSM è una ricerca datata, dunque se alcune cose valgono ancora oggi altre le potrei ripensare. Ciononostante il corpo, in quel frangente, è emerso come luogo in cui si inscrivono degli immaginari socialmente determinati, quindi un corpo che non è solo un oggetto e un soggetto influenzato da dinamiche fisiologiche, ma nel quale si realizzano suggestioni date dal contesto e che a sua volta, come nel caso dell’associazione tra dolore e piacere non sempre considerata accettabile sul piano sociale, esprime tutto il suo desiderio e realizza la sua potenzialità creativa.
Tra l’altro nel BDSM non si sperimentano sempre pratiche erotiche dolorose, ma esperienze relazionali che prevedono una stimolazione intensa dei corpi. Quindi in questo caso l’esperienza di una sessualità non vaniglia – ossia più prevedibile – diventa un luogo di creazione e anche espressione di sé. Ovviamente la riflessione sul BDSM ha aperto a moltissimi altri approfondimenti relativi al corpo su cui mi concentro ancora oggi, quali consenso, condivisione e collaborazione all’interno delle dinamiche affettive e sessuali.
A proposito di corpi e rappresentazione, la pornografia – soprattutto quella mainstream – ci propone dei modelli che rischiano di diventare prescrittivi. Cosa pensi a riguardo?
Oggi è importante parlare di pornografie perché non esiste solo la pornografia cosiddetta mainstream, ma tutta una serie di immaginari erotici, più o meno espliciti, sempre più plurali.
Nel porno mainstream la rappresentazione dei corpi è molto stereotipizzata e si orienta verso quei canoni di bellezza maggiormente abusati. Al di là di questo sarebbe importante riflettere sul tema dei ruoli e dei modelli di genere che si incarnano nel corpo: si pensi alle dimensioni del pene, alla presenza di corpi femminili iperbolici, o comunque disponibili, a un’azione maschile di tipo molto spesso abusante.
Lavorando con adolescenti vedo che l’immaginario mainstream, quindi un contesto in cui il consenso è meno esplicitato e i corpi sono bidimensionali, è incorporato dai ragazzi e dalle ragazze giovani perché è un immaginario che non viaggia solo nel cosiddetto porno ma anche, ad esempio, tra i social.
Questo genera delle aspettative che nella realtà non vengono ritrovate: se un ragazzino adolescente si aspetta che i primi rapporti sessuali saranno tre contro una oppure si aspetta una eiaculazione femminile o, ancora, di dover avere un pene dalle dimensioni importanti, il rischio sarà quello di raggiungere una percezione falsata dell’esperienza sessuale, in cui tra le altre cose la contraccezione non viene problematizzata e il consenso non è esplicitato.
Esistono, secondo te, esempi virtuosi di pornografia che lasciano spazio alla varietà dei corpi?
Sicuramente ci sono delle pornografie in cui la rappresentazione dei corpi è più plurale. Penso a un corpo disabile o a un corpo anziano, a un corpo sudato, stanco o che semplicemente non ha più voglia di esserci e interrompe la relazione. Questo tipo di immaginario raggiunge meno le generazioni più giovani, però è in crescita e va verso una pornografia che sia anche etica, che promuova la pluralità delle esperienze e delle pratiche oltre che dei corpi, ma anche il consenso e una visione della sessualità di tipo positivo e inclusivo.
È fondamentale, a mio modo di vedere, superare l’ossessione per la dimensione, insieme a tutti quei modelli di fisicità o di performatività fittizi. Proprio perché il corpo dice cose oltre ad essere cosa, bisogna riflettere con i ragazzi e le ragazze – come con gli adulti – sull’importanza di avere a disposizione corpi che parlino di più e si emozionino non solo di una costante eccitazione di cui siamo tutti in balia. Il nostro corpo siamo noi e siamo anche quello dell’altro, che è costantemente dentro e vicino al nostro.
Sappiamo che il genere è un costrutto, quindi si è maschi o femmine in un dato contesto sociale e culturale. Mi piacerebbe sapere, sulla base della tua esperienza con i ragazzi e le ragazze, cosa vuol dire oggi costruire la propria maschilità e la propria femminilità. I modelli di riferimento sono sempre così rigidi oppure qualcosa sta cambiando?
Ci sto riflettendo molto in queste settimane e sento di poter dire che qualcosa sta cambiando: credo che proprio nell’ultimo anno i ragazzi e le ragazze abbiano costruito dei modelli di genere più inclusivi.
Ormai parlano per hashtag: quando si discute di stereotipi di genere fanno riferimento alla maschilità tossica, alla body positivity, al body shaming, al gender fluid. In qualche modo me ne compiaccio, ma dietro l’hashtag che restituisce un’immagine di sé preparata e contemporanea le difficoltà continuano ad esserci: esistono ancora delle discriminazioni di genere molto profonde che hanno a che fare, per dirne una, con la divisione sessuale del lavoro.
Sicuramente in adolescenza la costruzione e la percezione del proprio sé di genere è una parte molto importante, mi sento di dire che alcune cose – come un certo tipo di maschilità virile o una femminilità costantemente ammiccante – sono ormai superate, d’altro canto l’omofobia o il fenomeno dello slutshaming sono ancora diffusi. Certamente, sebbene quella sacca di misoginia o omonegatività siano ancora corpose, i ragazzi e le ragazze sono più aperti al dialogo e al confronto di quanto non fossero anni fa, e anche gli adulti.
Spesso si sente dire che la tecnologia, e nello specifico i social network, ha generato delle mancanze in termini relazionali. Credi che la dimensione corporea delle relazioni sia venuta a mancare o si tratta di una percezione distorta?
La tecnologia, più che togliere, cambia. E noi la cambiamo. Non credo che abbia una responsabilità di tipo privativo, al contrario il rapporto tra la tecnologia e le persone è di doppia influenza. L’uso dei device nella nostra vita ha modificato molte dinamiche interpersonali, pensiamo anche a piattaforme come Zoom e Meet che sono entrate nella nostra professionalità o alle app di dating che ormai hanno una tradizione abbastanza lunga nelle dinamiche sessuali e affettive.
Bisogna dire che nella vita dei ragazzi e delle ragazze, ma anche degli adulti, non c’è questa suddivisione tra esperienze online e offline, sono compenetrate le une nelle altre. Ormai viviamo in una dimensione multisfaccettata che prevede la presenza de visu e la presenza, impercettibile ma concreta, nella vita gli uni degli altri attraverso l’utilizzo di piattaforme.
Il discorso relativo alla corporeità nelle relazioni è diventato centrale nell’ultimo anno, da quando viviamo in stato di emergenza. Probabilmente le restrizioni ci hanno portato a cercare altri luoghi di incontro aumentando la condivisione online. Cosa pensi a riguardo?
Proprio questa mattina, in un laboratorio svolto online, i ragazzi e le ragazze dicevano che ultimamente quando sono tristi o soli condividono di più. Ovviamente la relazione di persona non è scomparsa, entrambe vanno di pari passo, ma mi rendo conto che le app di comunicazione hanno costituito un luogo – perché si tratta di luoghi fisici e reali – in cui poter stare insieme.
Un corpo che è marcito in casa per mesi aveva bisogno di esprimersi altrove e quell’altrove sono state le piattaforme e i social. Devo dire che questa spinta a mostrarsi nelle emozioni e nel corpo, emozioni di gioia ma anche di dolore, a volte mi turba anche se non ho ancora capito in che modo. Di certo il confine tra pubblico e privato oggi è molto sfumato e, si sa, la condivisione crea identità collettiva.
Se è vero che la dimensione bidimensionale fa rete, dopo l’ultimo anno si avverte anche la voglia di scomparire in qualche modo. Io, personalmente, sento il desiderio di essere in un altrove, di esserci con il mio corpo tridimensionale.
Il corpo è un prodotto culturale, ma anche luogo di azione creativa. Se l’ambiente in qualche modo ci definisce, che ruolo assume la libertà?
L’ambiente – inteso non solo in senso fisico ma anche come relazione – è la cornice che influenza la nostra autodeterminazione, le nostre possibilità, i nostri limiti. Non esiste alcuna scissione tra noi e l’ambiente sociale, che incide sulla possibilità della persona di realizzare i propri desideri: il contesto sociale, politico, economico all’interno del quale una persona vive, e il potersene o meno emancipare, ha un ruolo fondante rispetto alla traiettoria che il suo corpo e la sua esistenza potrà prendere.
Se crediamo nell’azione creativa intesa come azione di libertà, sebbene sia una parola un po’ abusata, è dalla cura collettiva dell’ambiente che bisogna partire. Siamo tutti più liberi se lo sono anche gli altri perché libertà è capacità di agire i propri desideri nel rispetto dell’esistenza altrui, di chi è sempre e comunque dentro di noi.
Per noi che ci occupiamo di corporeità, di sessualità e di genere, la dimensione della relazione dell’identità come processo di confronto è un cardine su cui si fonda il nostro sguardo, ma spero anche la nostra esistenza. E tutte le soggettività si inseriscono in questa cornice di responsabilità collettiva.
Il concetto di responsabilità collettiva lo abbiamo sperimentato proprio in quest’ultimo anno. È venuta a mancare la fisicità in senso stretto, ma abbiamo ancora ben presente il corpo dell’altro, anche soltanto come confine per poterlo preservare e preservarci…
Il corpo dell’altro può essere un corpo minaccioso, un corpo di cui voglio prendermi cura, un corpo che assume tanti significati nel bene e nel male, ma è un corpo che dice a gran voce chi siamo e chi non siamo.
Come metto la mascherina o come metto il preservativo sono azioni che parlano della visione in movimento di ciò che concepiamo come spazio dell’io e spazio dell’altro. Quindi, sebbene il corpo si sia allontanato, di rimbalzo si è avvicinato tantissimo perché determina i nostri spazi di azione e non-azione. Esistiamo comunque, che lo vogliamo o meno, tutti insieme. Farsene una ragione, ma godere anche di questo, è auspicabile.