Mia madre abita qualche centimetro sotto la mia pelle, nelle dimensioni opache della me più inetta e volubile, nel richiamo viscerale a cui mi obbliga il dolore.
Nel tenore frammentario degli attimi felici.
Mia madre sono io memore e corda di violino, secca come panni al sole, piena delle parole che restano solo per me. È il marciapiedi delle pisciate, lo specchio del pianto.
Mia madre è la storia cominciata dalla donna che mi ha partorita con dolore e proseguita nelle virate del mio libero arbitrio spigoloso.
Nella costante ricerca di senso dei minuti passati, dello sguardo altrui, delle paure che mi lasciano a un palmo di mano dalla vita. Dal suo essere cruda.
La bassezza di un bisogno che chiede respiro e ragione d’esistere.
È la memoria del mio corpo, che ha sfiorato le cicatrici altrui, diventando crepa. Sangue vivo.
I sassi portati così a lungo nelle scarpe da dimenticarsi cosa significa camminare senza soffrire.
L’incontro nichilista.
Il brusio di una coscienza sana e malefica.
Le prese di coscienza dentro la perdita di coraggio.
Mia madre è la vita incontrovertibile dentro l’onestà del dolore.
Tutti. Figli potenziali di qualsiasi madre, tra le mani di una sola.