Niente è come lo vedi, ma il modo in cui lo guardi detta le condizioni della sua esistenza.
Come raccontare un luogo che non si conosce se non insieme alle persone che, abitandolo, gli restituiscono un senso e la sua identità? La trama della semplificazione è stata per decenni appannaggio della retorica sulle periferie e, come per qualsiasi altra narrazione semplicistica, c’era bisogno di una dicotomia a due tempi: la colpevolizzazione del “miserabile”, responsabile del suo stato, e il pietismo che conduce alla sua mitizzazione. Entrambi processi che spogliano, oltre che di verità, anche di umanità e singolarità le persone risucchiate nel vortice di questa retorica, persone ridotte a una dimensione, quella dello spazio geografico che occupano.
Per raccontare lo Zen di Palermo siamo stati ospiti del Laboratorio Zen Insieme per tre giorni, un tempo sicuramente troppo ridotto per ritenere di poterne parlare autonomamente, ma sufficiente per sentire alcune voci, raccoglierne le storie e raccontarle per raccontare lo Zen, fuori dagli stereotipi. Abbiamo conosciuto persone, incontrate nella loro individualità, nel loro mostrarsi pudico e caparbio: ci hanno permesso di vedere un luogo, di comprenderne le essenzialità e le contraddizioni che racconteremo in una serie di articoli.
Lo Zen è una questione di spazi
Lungo viale Sandro Pertini, si affaccia lo Zen 2, un quartiere totalmente occupato negli anni ’70 a causa dell’emergenza abitativa che coinvolgeva la città. Qualche semaforo, poco traffico. Fili d’erba seccati dal sole che corrono ai fianchi della strada e poi cespugli nati spaccando i marciapiedi. Dall’altro lato delle strade i palazzoni gialli monocolore scelti per connotare l’edilizia popolare dello Zen, le insulae, perché sopraelevate rispetto all’altezza della strada.
Dal cortile del Laboratorio Zen Insieme. Fotografia di Francesco Formica
Edifici messi in fila, alternati a scadenza regolare con il vuoto delle strade. Visto di fronte e dall’alto lo Zen 2 è vuoto e pieno ad intermittenze costanti. Talmente tante finestre, una dietro all’altra, da perderne la fine. Sono circa 17mila gli abitanti previsti sulla carta, ma il censimento dello Zen ne conta il doppio. Ad immaginarla disabitata, questa periferia alle porte di Palermo apparirebbe senza storia, senza un passato né un passaggio di vite, di nascite, di messe in movimento, di incontri. Ad immaginarlo senza persone, lo Zen forse sarebbe solo cemento senza impronte da ricordare, ma non è così. Le tende, i panni stesi alle finestre, la musica, il fruttivendolo dell’angolo sono colori e gemiti di esistenze in fermento che hanno fatto di un posto una casa in cui tornare e non soltanto da cui uscire.
Lo Zen 2 è questione di spazi, almeno per una triplice ragione: in prima battuta l’alternanza del vuoto e del pieno che svilisce le dimensioni del dentro e del fuori, cristallizzandole in sezioni rigide prive di luoghi di intermezzo per la socialità. Poi c’è il contrasto estetico dello spazio privato e di quello comune all’esterno. E a chiudere c’è lo spazio dell’isolamento, del confinamento geografico, dell’esclusione sociale, o meglio dell’«espulsione», come ci dirà Mariangela di Gangi. Addirittura Zen 1 e Zen 2 sono divisi da una costruzione piuttosto recente, una chiesa di fine anni ’80 che fa da muro di cinta tra i due quartieri.
Quartiere Zen 2. Fotografia di Francesco Formica
Il Laboratorio Zen Insieme
Non posso non chiedermi cosa ne sarebbe stato del nostro bagaglio rispetto allo Zen senza le persone che ce lo hanno raccontato. Non posso non chiedermi quanta saccenza serva ad un forestiero, più o meno occasionale, per etichettare un luogo senza averlo sentito respirare.
A guidarci dentro il Laboratorio Zen Insieme e fuori gli operatori dell’associazione, più di ogni altra/o una preparatissima e pazientissima Maria Carmen Fasolo, referente del Laboratorio Zen Insieme per i programmi educativi, per il supporto alla fragilità genitoriale e per i rapporti con i servizi territoriali. Insieme a lei, Mariangela Di Gangi, coordinatrice del Laboratorio Zen Insieme, Fabrizio Arena, vicepresidente e referente per i progetti e le attività in ambito culturale e per i tirocini formativi. Ma anche Alessandra Notarbartolo, referente per le attività promosse per valorizzare la differenza di genere e nell’ambito del contrasto e della prevenzione della violenza di genere, le operatrici Miriam Spinnato e Rosi Chiovaro, l’operatore Paolo Di Lorenzo e le/gli adolescenti del Laboratorio che hanno parlato con noi.
Racconteremo più da vicino e dall’interno le attività svolte da Zen Insieme, lasciando la parola alle persone che vi hanno intrapreso un percorso e che lavorano nei vari laboratori e percorsi di intervento culturale e di riqualificazione urbana partecipata, alcuni dei quali sostenuti da Save The Children.
Lo spazio morbido per i bambini da 0 a 3 anni. Fotografia di Martina Lambazzi
Iniziative come Punto Luce, Spazio Mamme, la Biblioteca Giufà, fornita di libri donati soprattutto attraverso una campagna di bookraising ed entrata a far parte ufficialmente del Sistema Bibliotecario Nazionale tramite il polo della Biblioteca Comunale, i laboratori sui sani stili di vita, le attività educative per bambini da 0 a 6 anni e il laboratorio sulle competenze STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) per i bambini dagli 8 ai 14 anni.
Di quest’ultimo Ivan Brusa, uno dei referenti del corso, ci spiega: «il progetto ET3 (Equip Today To Thrive Tomorrow) che stiamo realizzando in partnership con Save The Children ha due filoni fondamentali: il primo cerca di sviluppare tutte le competenze STEM attraverso lo studio e l’apprendimento della robotica, della progettazione, del coding e l’utilizzo della stampante 3d. L’altro filone invece cerca di sviluppare le human skills, oggi ad esempio, cerchiamo di lavorare sul pensiero divergente: con delle semplici cannucce e del pongo proveranno a realizzare costruzioni tridimensionali giocando con equilibrio e costruzione. Il passo successivo è quello di dare energia elettrica alle strutture con dei piccoli led, in questo modo i bambini e le bambine sperimentano il concetto di rispetto dell’ambiente e riciclo. Tra le human skills anche lo sviluppo pedagogico della condivisione di gruppo e dell’autostima. Uno degli obiettivi fondamentali del progetto è quello di superare la differenza di genere: sin dall’inizio abbiamo fatto dei giochi di gruppo per sollecitare in loro argomentazioni al riguardo, chiedendo ad esempio se una ragazza potesse essere in grado di utilizzare una stampante 3d o di occuparsi di coding. Un’iniziale titubanza da parte dei bambini e delle bambine è stata superata molto velocemente e, dati alla mano, molte ragazze sono riuscite nella costruzione dei robot prima dei ragazzi».
Laboratorio STEM. Fotografia di Francesco Formica
Rispetto alle differenze di genere, Maria Carmen Fasolo aggiunge che è una questione rispetto alla quale rivolgono molta attenzione anche nel linguaggio: «tendiamo a nominare sempre anche il genere femminile. Lavoriamo molto su questo, così come sul razzismo e sulla sessualità: moltissimi ragazzi e ragazze qui da noi si sentono liberi di confrontarsi su vari temi senza la paura di essere giudicati».
E ancora, laboratori di lettura e storytelling, lo Zen Book Festival, dedicato alla letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, attività di accompagnamento allo studio, laboratori di musica, la realizzazione del Giardino Planetario, ideato da Coloco e Gilles Clément, protagonista della Biennale Manifesta 12, il campetto di calcio Andrea Parisi e il laboratorio di advocacy partecipata all’interno del progetto S.C.A.T.T.I (Scuola, Comunità, Attivazioni, Territorio, Innovazione) che – causa covid – ha dato vita ad una mostra fotografica itinerante organizzata in totem da esposizione.
I totem del progetto S.C.A.T.T.I. Fotografia di Francesco Formica
I ragazzi e le ragazze dovevano raccontare loro stessi attraverso la fotografia, dovevano raccontare il loro quartiere, gli spazi e i padiglioni. Al contest hanno partecipato, oltre al quartiere Zen, anche Ponte di Nona (Roma), Giambellino (Milano), Scalea e Praia al Mare (Cosenza). Da questo percorso è nato anche un libro, Zen B, che raccoglie gli scatti, risalenti al periodo del lockdown, delle ragazze e dei ragazzi che hanno fissato «il bello che avevano davanti», come sottolinea Fabrizio Arena.
Libro fotografico ZEN B. Fotografia di Martina Lambazzi
Lo Zen B che raccontano non si contrappone alla narrazione retorica dello Zen A: il quartiere è lo stesso, ma il modo diverso e autentico in cui lo hanno guardato sta dettando le nuove condizioni della sua esistenza.